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Diario di bordo di Marco Baliani "La passione del narrare"

Riflessioni a margine della Masterclass sulla narrazione tenuta agli allievi del corso La Scena Successiva diretto da Claudio Di Palma



“La volontà di trasmettere alle nuove generazioni la necessità di mantenere salda, nel vorticoso presente fatto di social, di continue incursioni visive, di attrazioni e stimoli, la umanissima e contraddittoria presenza della voce che narra”

In soli quattro incontri con il gruppo di attrici e attori napoletani ho dedicato quel poco tempo con loro a fargli percepire come la narrazione orale per essere efficace abbia bisogno di una sottostante passione.

Senza un’urgenza di dire, nessun racconto si svilupperà mai o, se pure prende corpo, sarà qualcosa che suona falso, stonato, imparato ma non sentito.

Ecco, ho lavorato con loro a fargli scoprire cosa sostiene l’arte del racconto orale, dalle esperienzepiù semplici, come raccontare il proprio nome a quelle già più complesse come narrare un fatto di cronaca.

Al fondo per me c’è la volontà di trasmettere alle nuove generazioni la necessità di narrare e narrarsi, a mantenere salda, nel vorticoso presente fatto di social, di continue incursioni visive, di attrazioni e stimoli, la umanissima e contraddittoria presenza della voce che narra.

Narra agli altri, almeno a un altro: narrare è sempre cercare una relazione,una non distanza con altri occhi e orecchie.

Una vicinanza che però va conquistata, attraverso la speciale predisposizione del corpo, dello sguardo e dei sensi rivolti all’ascoltatore.

Il racconto del nome è stata una carrellata strepitosa di dynasty familiari, è un esercizio che metto sempre o quasi all’inizio del mio lavoro, un modo per conoscersi più a fondo di qualsiasi presentazione.Un attore che si presenta di solito sciorina un curriculum di cose fatte e cose imparate, senza pecche e senza guasti.Se invece deve “solo” narrare chi e come ha avuto il nome che si porta addosso, ecco che di colpo le difese crollano, la richiesta è così semplice che anche le risposte non possono che essere oneste,c’è poco margine per costruirci sopra affettazioni o artifici,il nome è quello, impresso nel corpo fin dalla nascita, eppure si scopre di possederne solo una parte, quella data per scontata fino a che qualcuno non ti chiede, con curiosità e attenzione, di raccontare il percorso. E cominciano le scoperte.

Una richiesta semplice genera un’immediata forma di partecipazione e subito si impara a prendere l’attenzione degli altri che siedono in circolo intorno.

Il racconto del nome poi porta con sé altre stratificazioni narrative.

Ma qui non ne voglio enumerare le possibilità di esplorazione, come per ogni mio esercizio teatrale, sfuggo volutamente sempre alla trasformazione del percorso in metodo. Esistono infinità di approcci e di esercizi ma il modo in cui avvengono deve essere unico e speciale per quel particolare gruppo di attrici e attori, e la mia capacità è quella di cercare ogni volta di comprendere bene con chi ho a che fare e come sviluppare potenzialità a partire dalla concretezza di quei corpi e di quello stare insieme in quel contesto spazio temporale.

Ecco perché in quei pochi incontri ho voluto privilegiare l’urgenza che necessita al narratore per intraprendere il suo racconto, più che le possibili tecniche della narrazione orale, che comunque hanno fatto capolino qui e là durante i racconti come brevi miei appunti sulle modalità di esporre. Spero che questa necessità sia stata vissuta e in parte appresa.

Quando il racconto da fare era basato su qualcosa di esterno totalmente alle esperienze personali vissute, dopo pochi esercizi legati al tempo e all’uso del tempo (che è la scoperta più difficile e gioiosa al tempo stesso quando l’attore ne recepisce la portata), le cose si sono complicate.

Raccontare un fatto di cronaca, raccontarlo in terza persona, oppure scegliendo di essere uno dei protagonisti del fatto narrato o ancora non essere da solo a narrarlo ma farsi accompagnare e ostacolare da un altro o altri personaggi della vicenda narrata, tuttoquesto è stato un esperimento narrativo di notevole intensità in cui anche io ho sperimentato cose nuove.

Raccontareun fatto di cronaca, cruento oppure no, ridicolo o ironico, in tutti i casi ecco che quel fatto esce dalla routine televisiva o informativa con cui è stato unicamente narrato e diventa una palestra di emozioni, sentimenti, punti di vista divaricanti. La cronaca perde oggettività(se mai ce l’ha avuta, quella pretesa oggettività che ossessiona qualsiasi indagine o qualsiasi processo in tribunale) e diventa la incredibile partitura di un avvenimento che ha tante verità quanti sono i luoghi e gli occhi e le orecchie da cui si guarda e si ascolta.

È stato bello e utile, per tutti credo, scoprire che ognuno ha la possibilità di raccontare e raccontare con forza se alla base c’è una cocente necessità. Quando si impara è fondamentale che il maestro sappia proporre compiti da superare. Con difficoltà. Altrimenti si pensa che tutto sia sempre a portata di mano, che la facilità di questo nostro vivere sociale dove tutto è consumabile pagando, sia trasportabile anche nel sentire, nel provare emozioni, nel relazionarsi con gli altri.

E invece è un compito arduo, sempre, cercare di farsi davvero ascoltare.

Ecco, penso che alla fine a prevalere come possibile furto da compiere(il rubareè la condizione dell’imparare tra maestro e allievo) sia stata la scoperta dell’ascolto più che della voce narrante.

Ascoltare davvero è per me condizione non solo dello stare in scena, ma dello stare in questa porzione di mondo così caotica e così fragorosamente rumorosa.


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