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La libertà in scena con “Grazie ragazzi”

Detenuti che si confrontano con Beckett nel film con Antonio Albanese



Di Antonio Tedesco


In Grazie ragazzi un gruppo di carcerati si confronta con Aspettando Godot di Beckett. Antonio Albanese, nel film, vede la propria carriera di attore svaporare in una progressiva penuria di scritture. L’opportunità di tenere un laboratorio teatrale in un carcere sembra un ripiego. Si rivela, invece, un’occasione di crescita e di riscatto per lui e per i suoi attori detenuti. Nell’aspettare Godot, che non si sa se e quando arriverà, provano nel frattempo a ritrovare se stessi.

Perché si va a teatro? Quale è la forza di questa forma d’arte che pare (o si dice) sempre in crisi, continuamente sopravanzata da altre forme di comunicazione più veloci, sofisticate, tecnologiche? Domande a cui non è possibile dare risposte univoche.

I fattori sono molteplici e sicuramente coesistono. Ma di una cosa si può essere certi, se il teatro sopravvive da millenni è perché l’umanità ne ha bisogno. E l’esperienza recente (parliamo degli ultimi quattro o cinque decenni) ci dimostra che proprio in quelle fasce di umanità più marginali e reiette, la forza e il valore del teatro si esprimono nella massima pienezza.

Periferie, quartieri a rischio o degradati di città grandi e piccole.

Carceri. E non è un caso. Perché il teatro, per chi lo fa e chi lo vede, rispetto a quei luoghi, spesso di sofferenza, è un altrove. Consente di spogliarsi da sé ed essere altro. E allo stesso tempo vedere se stessi con più chiarezza proprio attraverso l’altro. E in quale luogo il desiderio di uscire da sé, ma non solo, è (può essere) più forte che in carcere? Le esperienze di teatro nei luoghi di reclusione, sia come laboratori che messe in scena, si sono moltiplicate negli ultimi anni. Con esiti spesso anche sorprendenti (vedi La Compagnia della Fortezza a Volterra).

A conferma del fatto che la “prigione” da cui bisogna uscire è prima di tutto quella della propria vita. Identificandosi con qualcosa di diverso. La simulazione di un sé che percorre una strada che non debba necessariamente concludersi dietro le sbarre e i cancelli. Ma che sia anche metafora di una condizione umana più universale, dove sbarre e cancelli non si vedono, non si possono toccare, ma non è detto che non ci siano. Di cosa parla Aspettando Godot di Beckett se non di questo?

Di quest’umanità sospesa che aspetta qualcosa, senza neanche sapere bene, in realtà, che cosa sia?

E dove può adattarsi meglio questa indefinita, indefinibile, condizione di attesa se non in un carcere? Nel 1985, qualche anno prima che in Italia partisse l’esperienza di Armando Punzo a Volterra, in Svezia l’attore e regista Jan Jonson scopre le potenzialità recitative di un gruppo di detenuti a cui teneva un laboratorio teatrale proprio sul testo di Beckett, nel carcere di Kumla. Decide di andare fino in fondo e quello che era partito come semplice laboratorio diventa uno spettacolo che ottiene ampia risonanza e grande successo. Il teatro smarca le vite di questi uomini dallo scacco in cui si sono incastrate. Offre loro una possibilità di ripensamento, di ridefinizione. Di più, di rinascita.

L’esperienza svedese viene fissata nel 2005 dal regista Michka Saäl in un documentario dal titolo Les prisionniers de Beckett e ripresa in Francia da Emmanuel Courcol nel 2020, che ne fa un film di finzione dal titolo Un triomphe, che gira poco per via del Covid (in Italia solo in TV satellitare con il titolo Un anno con Godot). Nel 2022 il regista Riccardo Milani riprende la storia e ne fa un remake in chiave italiana e contemporanea, intitolato Grazie ragazzi, con Antonio Albanese e un valoroso gruppo di comprimari, tra cui Sonia Bergamasco, Fabrizio Bentivoglio, Vinicio Marchioni.

Il teatro per mostrare il meglio di sé ha bisogno di stimoli forti, a volte estremi. La routine lo depotenzia, gli fa male. Così Albanese, nel film, vede la propria carriera di attore scolorire e svaporare in una progressiva penuria di scritture.

L’opportunità di tenere un laboratorio teatrale in un carcere sembra un mero ripiego. Si rivela, invece, un’occasione di crescita e di riscatto per lui e per i suoi attori detenuti.

Dove, nell’aspettare Godot, che non si sa se e quando arriverà, si può, nel frattempo, cercare di ritrovare se stessi. Milani si sofferma e dà rilievo alle storie personali dei singoli personaggi, ai loro accidentati retroterra precarcerari, mantenendo il tono della commedia su un registro dolce-amaro, pur senza rinunciare agli spunti comici e divertenti che l’insolita situazione può offrire. Ma senza trascurare, al contempo, la questione delle carceri e del reinserimento degli ex detenuti nella società, con tutte le tematiche connesse e oggi più che mai sentite. Il film scorre con leggerezza, evita pensosi intellettualismi, si rende fruibile a una platea ampia e popolare.

Come quasi tutto il cinema di Milani che, dai tempi di Auguri professore (1997) al più recente Come un gatto in tangenziale (2017), affronta con passo lieve, ma non superficiale, le problematiche sociali più scottanti. In linea con la tradizione di quella commedia all’italiana che tanto seppe dirci sui vizi, i mutamenti e le contraddizioni che attraversavano, e ancora attraversano, la nostra società.


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