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Comunico le Parole di cui mi sono innamorato

Il regista è semplicemente uno dei termini della dialettica teatrale ed è quello che si assume la responsabilità di dare uno scopo ed una fine alla dialettica”.


Giorgio Strehle


di Piero Maccarinelli

Sono partito da qui più di quarant’anni fa cercando di attuare questa dichiarazione del grande Maestro che ha chiarito mirabilmente con il suo lavoro quale dovrebbe essere per me la posizione del regista in teatro.

Ho sempre voluto partire dal testo. La pagina scritta, drammaturgia o poesia, è condizionante per la rappresentazione, perché è nata per essere rappresentata, finita sulla scena. Deve essere letta, poi detta, poi interpretata rispettandone il significato e cercando di capirne il significante.

Per questo la mia attenzione si è concentrata principalmente sulla meticolosa analisi testuale, convinto che per gli interpreti sia la base di partenza necessaria e indispensabile per il loro lavoro.

Questa analisi non si fa da soli e soprattutto necessita di una finalizzazione: almeno per me la si fa per il pubblico che è necessariamente il terminale ultimo della ricezione della comunicazione.

Più forte sarà la comprensione semantica dell’interprete più forte la comunicazione. L’analisi del testo è facilitata quando il testo è scritto in lingua italiana o quando il regista è il traduttore del testo stesso. Nel mio caso, i testi di Florian Zeller. In alternativa bisogna lavorare con traduttori esperti con cui sviluppare empatia e complicità, penso a Eugenio Bernardi per Bernhard o a Dario Del Corno per Euripide, Claudio Magris per Ibsen.

In presenza di un progetto interpretativo del testo forte e trasgressivo mi è capitato di trovare questa complicità in Ricci/Forte per Troilo vs Cressida. In questo caso si trattava di una riscrittura tematica e fortemente contemporanea, ma dichiarata e non scippata o contrabbandata come troppo spesso capita di vedere. Un complice meraviglioso su riduzioni da opere letterarie è stato Tullio Kezich per Zeno, Mattia Pascal e Il romanzo di Ferrara da Bassani.

Ho cercato da subito di appoggiare o presentare testi di autori italiani proprio perché penso che la lingua sia il primo veicolo di espressione e, in autori consapevoli, questo è un enorme vantaggio per gli attori, per la comunicazione. Da qui il mio rapporto con Giuseppe Manfridi, partito con una riscrittura in endecasillabi – il verso in cui si esprime naturalmente la nostra lingua – di Teppisti! poi proseguita con altri 8 spettacoli fra cui Giacomo, il prepotente su Leopardi in tournèe per tre anni.

La partitella di Manfridi è stato il primo di molti progetti che ho sentito come necessari per il mio mestiere – certo, mestiere non arte –, cercare di fornire opportunità a giovani interpreti, specialmente se usciti da Accademia o C.S.C, di farsi conoscere su importanti palcoscenici nazionali. Molti di quei ragazzi e ragazze lavorano ancora oggi nello spettacolo.

A Manfridi è seguito Il romanzo di Ferrara, Troilo/Cressida, L’Esposizione Universale di Squarzina, La Mafia di Luigi Sturzo. Ma la mia “fame” di autori da rappresentare per far vivere il teatro attraverso la nostra meravigliosa lingua italiana mi ha portato a commissionare testi a Marco Malvadi e Daniele Mencarelli, autori di letteratura che hanno saputo capire il linguaggio teatrale ma anche a fondare Artisti Riuniti che per 10 anni ha proposto dei lunedì in vari teatri di Roma – Eliseo e Piccolo, Valle, Argentina – destinati alla lettura di testi inediti di drammaturghi, giornalisti, sceneggiatori fra i più importanti del mondo culturale.

Tutto per dire che nel mio lavoro la centralità del testo è totalizzante quanto il piacere di trovare complicità negli interpreti che scelgo. Senza la loro complicità, la condivisione delle scelte, la decodificazione comune e condivisa non ci potrebbe essere la rappresentazione. Certo, la spazializzazione è importante, il corpo in relazione pure. Le luci, la scena, i costumi? Utili ma non necessari; troppo spesso diventano ingombrantemente predominanti. L’Estetica non può cancellare la necessità della comunicazione nella rappresentazione. Son et lumieres possono addolcirla, non sostituirsi ad essa.

“Faccio teatro per cambiare il mondo, anche se so che con il solo teatro non lo cambierò mai. Adoro la poesia e la parola, amo sentirla suonare e dire e spiegare… Mi piace il rapporto con gli esseri umani, amo il teatro perché è umano… lo faccio dove posso e come posso, nel posto che posso, scegliendo il meglio che posso, cercando di essere onesto con me stesso e con gli altri”.

Strehler 45 anni fa, alla scuola del Piccolo Teatro, mi ha fatto innamorare del Teatro anche con queste parole e poi ho avuto la possibilità di dirigere quasi 100 spettacoli con quasi tutti i migliori attori e attrici italiani, dalla Moriconi a Tedeschi, dalla Melato a Orsini e Pozzi, Popolizio, Mandracchia, De Francovich, Guarnieri, Cabra, Lazzareschi, Haber, Falk, Proclemer… l’elenco sarebbe troppo lungo. Mi piace ricordare La banalità dell’amore al Mercadante tre stagioni fa con una bella compagnia, da Anita Bartolucci a Claudio Di Palma…

Insomma, faccio teatro perché amo comunicare al pubblico, attraverso gli attori, le parole di cui mi sono innamorato.


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