Verso il record di centomila repliche. Oggi sono settant’anni che quella magia si ripete inesorabile. In un unico teatro, in un’unica strada, sotto le stesse luci di una Londra delicata, che regala a un solo spettacolo una “casa per sempre”. Con la Christie in prima fila…
Di Guglielmo (Liam) Ferretti
C’è stato un tempo che i teatri li costruivano due alla volta. Ci mettevano un vicoletto in mezzo, un cestino per le cartacce, una vecchia signora, molto british, in giro col cane a far pipì, ed era fatta. Due teatri e nemmeno il tempo di una sigaretta per passare da uno all’altro. Ovviamente avveniva un secolo fa, e non in Italia. A Londra. All’incrocio tra Tower Court (il vicoletto, sic) e West Street. Per essere precisi. La leggenda narra che un pomeriggio d’inverno del 1910 Richard Verney, diciannovesimo barone Willoughby de Broke, uno stravagante aristocratico con la passione per la caccia alla volpe invitò, nel suo ufficio di Camden Town, l’ancora più stravagante architetto William George Robert Sprague e gli propose di costruire un piccolo teatro. Una roba intima, in stile georgiano, da realizzare proprio di fronte all’Ivy, un ristorantino per (manco a dirlo) stravaganti artisti e nullafacenti londinesi.
Sprague ascoltò la proposta in silenzio. Lui di strutture dedicate allo spettacolo ne aveva già progettate tredici e gli scappò di rilanciare: “Ok, accetto se ne facciamo due, di teatri. Contemporaneamente”. Son storielline da pub, naturalmente. Quello che conta fu che lord Willoughby de Broke accettò senza battere ciglio e cominciarono gli stravaganti lavori. Nel 1913 completarono l’Ambassadors, tre anni dopo (ma solo per via della guerra) aprì anche il St Martin. Di fronte. Tipo a ventisette passi. 444 posti uno, 550 posti l’altro. In mezzo Tower Court, e intorno mezza storia della letteratura inglese. Da Dickens a Jack lo Squartatore. Tanto per non farsi mancare niente.
L’idea non era male. Due sale, una di fianco all’altra, e trasformi una strada in una piccola cittadella della cultura. In fondo Richard Verney aveva le idee chiare. Anche quando pubblicò la Storia della Caccia alla Volpe e non se lo filò nessuno. Lui faceva cose, vedeva gente. E il concetto di ‘andar per teatri’ lo trovò irresistibile. Nessuna ottimizzazione, insomma. Due teatri insieme, per lui, erano solo una suggestione.
Accadde molto dopo che il fatto che l’Ambassadors e il St. Martin fossero vicini risultò un colpo di fortuna. E accadde grazie ad una signora che stava per regalare alle due strutture, pensate da Sprague, una fama imperitura. Eterna, varrebbe la pena di dire. La storia comincia nel 1952. Siamo lontani dalle due Guerre, e a Londra il libro sulla Caccia alla volpe di Verney è una chicca per stravaganti collezionisti. In un clima così circolò voce che dame Agatha Christie, la Regina del Delitto, da un po’ di mesi se ne stava andando in giro con uno spettacolo intitolato Trappola per topi, un omaggio a Shakespeare che titola il terzo atto dell’Amleto proprio così. La pièce aveva debuttato il 6 ottobre a Nottingham, poi una piccola tournee per la provincia inglese. Con la gente che a ogni replica raddoppiava, triplicava, quadruplicava. Figurarsi quando la signora bussò alla porta girevole dell’Ambassadors e disse: “Vi interessa?”. Beh, firmarono un contratto a vita e dal novembre del 1952 il capolavoro della creatrice di Poirot e Miss Marple non si spostò più da Tower Court. Già. Perché ventidue anni (fino al 1974) dame Agatha se li fece tra le 444 poltroncine dell’Ambassadors, e dal 1974 in poi la pièce si spostò di fronte, al St. Martin, per guadagnare qualche posto in più ed entrare dritto dritto nel Guinness dei Primati: lo Spettacolo più rappresentato di tutti i tempi. In scena ogni giorno e fermato solo dal virus SARS-CoV-2. Noblesse oblige.
Dovreste provare a immaginarvela, la scena. Tecnici, sarte, scenografi, fonici, che spostano mixer, bauli,sedie a dondolo, camini di polistirolo, da un teatro a un altro. Ventisette passi. Con le scene ancora montate, trascinate sulle spalle, infilate negli scatoloni aperti, e qualche umarell a guardare, manco fosse un cantiere della metropolitana. Spostavano Trappola per topi, il dramma che si svolge nella pensione familiare Monkswell Manor (Castel del Frate), in una notte di tempesta e neve, con sette ospiti ad aspettare di farsi ammazzare da uno psicopatico. Atmosfere da notti d’inverno, fuoco, parole, teatro. Già. Teatro. Perché quel testo nato da un radio-dramma (Tre topolini ciechi, 1948) sarebbe diventato una delle cose più belle fatte dalla Christie per la sua grande passione: il palcoscenico, appunto.
Oggi sono settant’anni che quella magia si ripete inesorabile. In un unico teatro, in un’unica strada, sotto le stesse luci di una Londra delicata, che regala a un solo spettacolo una “casa per sempre”. Come capita a pochi passi con il Fortune e The Woman in Black. Ne parlammo nello scorso numero di Proscenio. I Teatri per Sempre. Le storie che si incrociano, le parole che si infilano tra le poltroncine rosse, la voglia di vedere, rivedere, quasi fosse un rito, da ripetere all’infinito. Ventottomila volte. Quante sono le repliche che The Mousetrap ha messo in scena al St. Martin. Senza nemmeno più contare gli anni al suo gemello di Tower Court.
Perché tanto successo? Lo spiega la scrittrice: “è il tipo di commedia alla quale si può portare chiunque. Non è proprio un dramma, non è proprio uno spettacolo dell'orrore, non è proprio una commedia brillante, ma ha qualcosa di tutte e tre e così accontenta la gente dai gusti più disparati”.
E se lo dice la Christie…
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