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Bestiario Teatrale. Risonanze universali in quella “parlata palermitana”

Emma Dante. Nel suo libro il senso profondo del fare teatro, ossessione a cui votarsi come una missione. Le Carmelitane, ultimo lavoro dell’artista siciliana. “Sorelle” anche loro. Come le Macaluso



di Antonio Tedesco


Essere artisti significa dare sfogo a una ossessione. Continua, martellante, che ti toglie il respiro. Monotona nel suo costante ripetersi. Creativa nel suo riproporsi sempre in forme nuove. Un’ossessione a cui votarsi come una missione. Un’ossessione che dilaga e si spande. Che diventa universale. Un’ossessione che un’artista come Emma Dante esprime (vomita, rigetta, fa esplodere) attraverso il suo teatro. Un percorso diretto, di spettacolo in spettacolo. Un filo che si spande diritto. E poi si intreccia. Come un reticolo. Come le sbarre di una gabbia da cui non si può più uscire. Prigionieri. Come bestie. Bestie di scena, come recita il titolo di un suo spettacolo del 2017. Tragiche marionette animate dal soffio magico e traditore a un tempo, della vita che vanno a comporre il suo Bestiario teatrale. Come titola il libro che raccoglie parte rilevante della produzione drammaturgica dell’autrice e regista palermitana, dagli inizi al 2014 (Rizzoli, 2020 – pag. 448 € 22,00). Un “Bestiario” che è specchio fedele di quella ossessione. A partire dalla “Trilogia della famiglia siciliana” (mPalermu, Carnezzeria, Vita mia) con la quale l’autrice si affermò definitivamente, nei primi anni Duemila come voce nuova e originale nel contesto del teatro italiano. E poi i testi successivi, fino a Le pulle (2009) e Le sorelle Macaluso (2014). Un “bestiario” che nel libro è arricchito da alcune visioni illuminanti. Sguardi esterni/interni, più che apparato critico vero e proprio. Fasci di luce che ci aiutano a vedere meglio la Scena. A scoprirne i materiali che la compongono, ma anche i dettagli, i risvolti nascosti. A partire dalla prefazione di Andrea Camilleri, maestro di lingua. Che mette in evidenza proprio la particolare qualità del linguaggio utilizzato da Emma Dante. Una declinazione del dialetto siciliano che lui definisce “parlata palermitana”. Che, al di là della sua apparente specificità, riesce ad assumere, nei testi dell’autrice, risonanze universali. Ci sono, poi, gli scritti introduttivi di Elena Stancanelli e Giorgio Vasta. Entrambi conoscono bene l’autrice per aver collaborato con lei a vario titolo e ci aiutano a cogliere meglio aspetti della sua personalità umana ed artistica, oltre che dell’opera che di questa personalità è emanazione diretta. Ma è il testo introduttivo della stessa Dante, poche, intense paginette, a svelarci il senso profondo del suo teatro. Una chiave di lettura preziosa. In forma di invettiva, o forse di supplica. O di resa incondizionata. Un breve testo che svela quel senso di oppressione quasi claustrofobica. Ma anche di dipendenza. Affannosa, incalzante, dolorosa. Per sé, per i suoi attori, per il pubblico. Una sensazione più che un pensiero. Quella cosa che rende tanto affascinante e respingente a un tempo il suo lavoro. Come se il palcoscenico fosse la cella di una cupa galera da cui non si può fuggire. Eppure bisogna provarci, per sopravvivere. Continuare a dibattersi. La drammaturgia come scrittura vivente, si intitola, appunto, il saggio di Anna Barsotti, curatrice dei testi, che chiude il volume. Un saggio esauriente che inquadra l’opera di Emma Dante nel più vasto contesto del teatro europeo contemporaneo. E individua la drammaturgia dell’autrice come “drammaturgia di scena”, scritta su (e con) i corpi degli attori.

Un percorso coerente, dicevamo. Che trova spazio anche in altre direzioni. Quelle della narrativa (il romanzo Via Castellana Bandiera), come quella del cinema, con adattamenti dai suoi lavori letterari o teatrali. E dell’opera lirica, di cui ha curato, dal 2009 ad oggi, numerose regie. Trovando in quella più recente un confronto che ci pare molto in sintonia e indicativo della sua visione del teatro, I dialoghi delle Carmelitane, musiche di Francis Poulenc, libretto di Georges Bernanos. La storia di un gruppo di suore che, nel periodo del Terrore, durante la Rivoluzione Francese, furono crudelmente sacrificate ad una visone ottusa e degenerata degli ideali che mossero quella rivolta. “Sorelle” anch’esse. Come le Macaluso. Unite per sempre da un unico, tragico destino. Una soluzione estrema quella della ghigliottina. Ma che assume, nel percorso artistico della Dante, un potente valore simbolico. Una apoteosi del “ruolo” visto come ineludibile prigione esistenziale. Che non può trovare altro sbocco se non nel sacrificio finale. Conseguenza diretta di quell’idea di teatro espressa dalla regista nel suo scritto. Prigione, gabbia. Condanna ad una dannazione eterna. Gli attori sulla scena, inchiodati lì, per sempre, dallo sguardo degli spettatori, dei quali sono, allo stesso tempo, l’immagine riflessa. Impossibilitati a liberarsi perché il pubblico non può smettere di guardarli. Sono lì, a loro immagine e somiglianza. E in quel loro essere “prigionieri” ogni spettatore vede la propria prigione. Il suo essere ingabbiato nella propria scena-vita. Nel ruolo che (non) si è scelto. Ritrovando nelle “bestie di scena” il proprio essere “bestie di platea”. Nel grande zoo-prigione del teatro-vita.


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