Di Simone Sormani
“Eduardo Scarpetta è in camerino. Si odono le voci degli attori in palcoscenico e le risate del pubblico: l’ennesima replica di Miseria e nobiltà è cominciata. La giovane sarta lo aiuta a indossare il leggendario costume del suo più celebre personaggio, Felice Sciosciammocca: un vistoso abito a quadretti, molto usurato, di una taglia più piccola del necessario, e un papillon. Le scarpe sono, al contrario, scenograficamente grandi. Comincia a truccarsi. Il direttore di scena bussa alla porta, che è aperta.
Direttore di scena – Don Eduà, mo’ tocca a vuje!
Scarpetta (truccandosi) – Grazie, Sebastia’.
Scarpetta, non mancando di osservare le graziose fattezze della giovane sarta, infila il cilindro, che deve andargli un po’ piccolo, in bilico sulla testa, afferra un bastoncino da passeggio e, in questa tenuta che complessivamente ricorda molto da vicino quella di Charlot, esce, mentre la sarta riassetta lesta”.
È questo l’inizio della sceneggiatura del film Qui rido io di Mario Martone, che racconta le vicende pubbliche e private del grande Eduardo Scarpetta, attore e commediografo di successo, acclamato e venerato dalle platee di inizio secolo scorso. Uomo brillante, ironico, narcisista, severo e autoritario in famiglia. Seduttore impenitente fino all’incesto. Padre e patriarca di una dinastia teatrale che ebbe un erede ufficiale nel figlio legittimo Vincenzino e una discendenza naturale nei tre fratelli De Filippo, suoi figli illegittimi, il cui nome superò in fama quello degli Scarpetta che era stato loro negato. Interprete dei vizi e delle manie della nascente borghesia meridionale, che si riconosceva nella sua maschera di Felice Sciosciammocca, con la quale soppiantò quella di Pulcinella, emblema dell’antico teatro popolare. Vincitore della sua battaglia contro il teatro d’arte e l’affermazione del diritto alla parodia, per la quale riuscì a mobilitare a suo favore intellettuali come Benedetto Croce.
Così ce lo racconta Mario Martone, con precisione filologica e ricchezza di sfumature psicologiche ed emotive. Merito anche di una sceneggiatura ben costruita direttamente dal regista, insieme a Ippolita di Majo, premiata con un Nastro d’argento nel 2022 e pubblicata dell’editore Cratèra – giovane realtà dell’editoria partenopea particolarmente attenta al campo dell’architettura, del design e della fotografia – nel volume dal titolo, per l’appunto, Qui rido io (pp. 170, € 24,00), che sarà presentato il 18 aprile al Teatro Mercadante di Napoli (ore 17.30, presenti gli autori e i curatori Mario Spada e Carolina Scarpetta).
Operazione non usuale, che consente al lettore un vero e proprio viaggio nel backstage del film, anche attraverso indicazioni di regia e didascalie, e che soprattutto svela idee e suggestioni che hanno guidato il processo creativo e di lavoro di Martone. Un vasto immaginario, più ampio di quello strettamente cinematografico e teatrale, che emerge ad esempio nella didascalia introduttiva dell’incontro tra Scarpetta e Gabriele D’Annunzio nella villa del Vate in Toscana, episodio centrale della trama, in cui per comprendere l’atmosfera tra l’onirico e il lascivo che pervade l’ambiente – scrive Martone – “bisogna avere in mente i disegni di Guido Crepax, ma anche certi film di Totò. All’attore sembrerà, cioè, di essere in un sogno. Anche il dialogo col Vate, che appare poco dopo indossando una lunga vestaglia nera di seta, avrà la sospensione delle strisce di Crepax”.
Ma la qualità della scrittura di Martone e di Majo, – ispirata, per ammissione stessa del regista, alla drammaturgia di Eduardo De Filippo – consente al lettore di leggere queste pagine come un romanzo famigliare ambientato nella Napoli della Belle Époque, feconda di artisti, teatri, discussioni intellettuali. Un cinema da sfogliare, dunque, alla scoperta di una di famiglia definita da Peppino De Filippo “difficile”, “fatta di donne insieme vittime e complici, di servi di scena e di casa, di innumerevoli figli legittimi e illegittimi, anche essi tutti artisti”, dice l’autore nell’introduzione. Una famiglia radicata nel Sud e diventata poi, grazie al trio De Filippo, patrimonio del mondo.
E vale la pena di riprendere proprio le parole con cui viene introdotta la figura di un Eduardo De Filippo ancora fanciullo, descritto come “un bambino magro, in abiti borghesi, che forse appare più piccolo della sua età, se possiamo indovinarla dall’intensità matura del suo sguardo”, intento a spiare da dietro le quinte il padre sul palcoscenico – una delle prospettive principali del film – con timore e ammirazione, quasi a presagire il destino che lo attende, quello di un confronto con l’arte paterna e del suo superamento attraverso il teatro umoristico, portato avanti con i fratelli Peppino e Titina. Superamento che non riuscì, – o che riuscì solo in parte – invece, all’altro figlio di Scarpetta, Vincenzino, di cui queste pagine non mancano di sottolineare i contrasti con il padre, che lo condannò, in un certo senso, a portare avanti la maschera di Sciosciammocca, laddove egli sembrava propendere chiaramente per il nascente cinematografo, e che nel film è impersonato dall’ultimo discendente degli Scarpetta, il giovanissimo pronipote Eduardo, vincitore di un David di Donatello per questa interpretazione.
Volti, storie ed emozioni sono, dunque, protagonisti del lavoro di Martone, formando uno spaccato di vita “di una città leggendaria, la Napoli di inizio Novecento” apprezzabile nei suoi colori e nei suoi costumi anche nelle foto di scena di Mario Spada – tra cui gli eccezionali ritratti del protagonista Toni Servillo – che costituiscono, insieme a bozzetti, appunti di regia e immagini di archivio, il ricco apparato iconografico del volume.
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