Con Così parlò l’ingegnere, Jelardi riporta in vita gli anni dell’intellettuale partenopeo,
ripercorrendo l’essenza della città che è un teatro dove la filosofia si può spiegare in napoletano e il portiere e lo spazzino possono dialogare tra loro sentendosi un po’ Socrate e Platone
Di Simone Sormani
“La lunghezza effettiva della vita è data dal numero di giorni diversi che un individuo riesce a vivere. Quelli uguali non contano”. Così diceva Luciano De Crescenzo in uno dei suoi tanti meravigliosi aforismi. E la sua vita è stata proprio così: lunga e piena, perché non c’è stato un giorno che potesse considerarsi davvero uguale agli altri. Né poteva essere diversamente per un uomo che ha sperimentato di tutto e ha inseguito tutte le sue passioni: le donne, l’ingegneria, la filosofia, la scrittura, il cinema, la televisione, la divulgazione.
Con Napoli sempre sullo sfondo. Una città dove si tende ad “allargare” la durata della vita, cioè a viverla con intensità, piuttosto che ad allungarla. Altro concetto caro all’ingegnere-filosofo. Ecco perché, alla fine dei conti, gli anni effettivi da lui vissuti saranno stati molti di più dei novanta registrati all’anagrafe. Ed ecco perché non è facile racchiuderli tutti tra in un libro. A tre anni dalla scomparsa ci ha provato, per Mondadori, Andrea Jelardi in Così parlò l’ingegnere (pp.441, € 14,00), biografia – frutto di una meticolosa e documentata ricerca – che scorre piacevolmente ripercorrendo l’infanzia e la prima giovinezza dell’intellettuale partenopeo, vissute tra gli orrori della guerra e la spensieratezza nutrita di semplicità della Napoli del Dopoguerra, gli studi classici e poi quelli ingegneristici, l’impiego alla IBM, i difficili anni a Milano.
Fu proprio “il disagio della modernità predominante nella metropoli lombarda”, come racconta Jelardi, a fargli maturare a metà degli anni Settanta l’idea di tornare alla scrittura, sua antica passione, per raccontare la “napoletanità” intesa come cultura intrisa dell’agorazein greco, vale a dire il filosofare di tutti i giorni. Quella saggezza che nasce da riflessioni e fattarielli dei vicoli, dal gusto del paradosso e da “uno stile di vita fondato sulla relatività, sull’ottimismo, sulla speranza e sul limitato impegno”. Un modo di essere resistente all’odierna massificazione e omologazione degli individui, che faceva dire a De Crescenzo: “Napoli per me non è la città di Napoli, ma solo una componente dell’animo umano che so di poter trovare in tutte le persone, siano esse napoletane o no. A volte penso addirittura che Napoli possa essere ancora l’ultima speranza che resta alla razza umana”.
De Crescenzo filosofo e narratore dunque che, sulla scia di Giuseppe Marotta e del suo L’oro di Napoli, restituisce “ai napoletani la dignità perduta, l’anima, il colore e il folklore, sfidando a viso aperto gran parte degli intellettuali del Dopoguerra, convinti che invece questa napoletanità fosse un difetto grave e imperdonabile”, scrive Jelardi. E lo fa andando all’essenza di una città che è teatro dove, come in Così parlò Bellavista – uno dei suoi best seller diventato cult cinematografico intergenerazionale e poi commedia teatrale con Geppy Gleijeses, Marisa Laurito e Benedetto Casillo –, la filosofia può essere spiegata in napoletano e il portiere e lo spazzino possono dialogare tra loro sentendosi un po’come Socrate e Platone.
Ma vale la pena di ricordare anche, tra gli altri, Storia della filosofia greca, Oi dialogoi, Il dubbio, Panta rei, I grandi miti greci, Ordine e disordine. Tutti successi internazionali dai numeri impressionanti: si calcola che i suoi libri abbiano venduto oltre 18 milioni di copie nel mondo. Ed è stato forse questo il suo più grande merito, che lo ha reso un po’ inviso ai circoli accademici ma amatissimo dalla gente comune: farsi capire da tutti, di qualunque argomento trattasse. E farlo anche attraverso il mezzo televisivo di cui colse, soprattutto agli inizi, il grande potenziale comunicativo, in una fase in cui la televisione stessa andava alla ricerca di volti e format nuovi, ma senza restarne schiacciato.
Diceva infatti: “La vita potrebbe essere divisa in tre fasi: Rivoluzione, Riflessione e Televisione. Si comincia con il voler cambiare il mondo e si finisce col cambiare i canali”. Così, quando la televisione finì sotto la dittatura dell’auditel e virò verso il trash, prima che qualcuno cambiasse canale fu De Crescenzo stesso a staccare la spina, tornando a dedicarsi unicamente a quella scrittura arguta, raffinata, capace di raccontare la realtà e diffondere cultura divertendosi e facendo divertire e di indagare con ironia l’animo umano. La scrittura di un uomo che, ancora oggi, ci sorride ammiccando e invitandoci a vivere quanti più giorni diversi è possibile per allungare la vita, perché quelli uguali non contano. Così parlò l’ingegnere.
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