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Angélica Liddell

Anima girovaga. Il suo teatro anticonformista e radicale, un esorcismo contro la violenza del reale. In Belgrado. Canta lingua il mistero del corpo glorioso, opera mai andata in scena, l’orrore della guerra nella ex-Jugoslavia. Oggi, di fronte a un’analoga tragedia, la parola forte della drammaturga spagnola come moto di pietà ed empatia



Di Simone Sormani


È nata girovaga Angélica Liddell. Fin dall’infanzia, infatti, i continui trasferimenti per lavoro del padre, un militare spagnolo, la costrinsero a una vita errabonda. E ha condotto per lungo tempo un’esistenza precaria, anche dopo aver deciso di dedicarsi al teatro nei primi anni ’90, inizialmente frequentando la Reale Scuola di Arte Drammatica a Madrid – abbandonata senza conseguire il diploma – e poi il laboratorio di scrittura teatrale tenuto dal regista cileno Marco Antonio de la Parra, e successivamente fondando la compagnia Atra Bilis Teatro.

Oggi, a 57 anni, Angélica è un’attrice, drammaturga e regista riconosciuta a livello internazionale, ma nel suo teatro, anticonformista e radicale, si riflette ancora quello spirito vagabondo. Non solo perché preferisce ormai esibirsi solo all’estero, ma anche perché i suoi lavori hanno sempre come epicentro una frattura tra l’individuo e la realtà, spesso sordida e abietta, che lo circonda, e che nella sua esperienza personale corrisponde a un vissuto doloroso. Il teatro di Angélica Liddell è anche ricerca di una contaminazione tra “generi e stili d’arte”, tra “parole, immagini, suoni, musica e gioco”, tra “il drammatico, il divertente e il tragico”, motivi per cui nel 2013 le è stato conferito il Leone d’Argento alla Biennale di Venezia per l’innovazione teatrale.

In scena, l’utilizzo di oggetti perturbanti – siano essi bambolotti smembrati o impiccati o animali ridotti allo stato di vittime – e il ricorso ad azioni violente puntano non a sfidare i limiti dello spettatore, quanto a colpirlo direttamente e brutalmente allo stomaco per rendergli insopportabile quella stessa realtà e arrivare ad una decostruzione dei miti su cui essa si fonda. “Preferisco non chiamare teatro quello che faccio. È un modo di morire. Morire è ciò che è più vicino alla verità. Avrei dovuto ammazzarmi da molto tempo, sono una suicida senza suicidio, e per questo interpreto ripetutamente la mia morte sul palcoscenico” ha scritto in El año de Ricardo, terza parte del suo celebre trittico Atti di resistenza contro la morte.

In LiebestodL’odore del sangue non mi va via dagli occhiJuan Belmonte, testo andato in scena anche in Italia al Teatro Arena del Sole di Bologna il 29 aprile 2022 e pubblicato dall’editore Luca Sossella in un volumetto dal titolo Non devi far altro che morire nell’arena (a cura di Sergio Lo Gatto e Debora Pietrobono, traduzione di Silvia Lavina, pp.75, € 12,00) – che raccoglie anche due brevi saggi della Liddell: Il piacere degli dèi e Un combattimento che si rispetti –, scrive invece: “L’unica cosa che ci libera dalla morte è desiderarla. Bisogna offrire spavaldamente al destino il varco da cui può ferirci”. Tant’è che in Liebestod campeggia la figura di Juan Belmonte, il matador spagnolo morto suicida e famoso per avere uno stile unico nel toreare, che lo portava ad aspettare immobile il toro invece di indietreggiare. Figura che si intreccia con quelle letterarie di Tristano e Isotta, morti per amore – Liebestod è l’aria finale dell’opera Tristano e Isotta di Richard Wagner e vuol dire “morir d’amore” –, e con quella dell’autrice stessa. Massimo Capitta sul Manifesto ha descritto lo spettacolo come un “delirio di parole e di immagini, che sempre e comunque coinvolgono (e a tratti sconvolgono), anche se non si ha mai la certezza di penetrare totalmente il loro senso e il suo pensiero”. Anche perché la sua scrittura è caleidoscopica e ricca di elementi eterogenei e riflessioni metaletterarie. Una scrittura in cui i monologhi prevalgono sui dialoghi e che, spesso, assume la forma del poema drammatico, per cui il testo acquisisce una sua autonomia, toccando la sfera emotiva anche attraverso l’uso di un’invettiva poetica violenta che lei stessa ha definito, nella sua performance Lesioni incompatibili con la vita, come un modo per lottare “contro la violenza reale”.

Difficile trovare una dimensione filosofica in un’autrice come lei, che rifugge da qualsiasi visione ideologica, che non sia quella dell’amore per la vita attraverso un costante e continuo confronto con la morte e, allo stesso tempo, trovare nella sua vasta produzione teatrale un filo conduttore diverso da questa tensione nel voler trasformare la violenza in uno spettacolo poetico, che si serve di gesti rituali, immagini disturbanti e spazi fortemente simbolici. Come in Belgrado. Canta lingua il mistero del corpo glorioso, una sua opera edita in Italia da Edizioni Ets (studio e traduzione di Silvia Monti, pp.270, € 24,00). Qui alla narrazione della guerra nei Balcani fanno da contrappunto, nel sottotitolo (dove il riferimento è all’inno eucaristico Pange lingua di San Tommaso d’Aquino) e all’inizio di ogni scena, dei frammenti di canti liturgici che conferiscono al testo stesso un andamento ritmato e quasi ieratico e sottolineano come tanto orrore sia per l’uomo il compimento di un destino ineluttabile, di fronte al quale anche il linguaggio deve arrendersi. Infatti due dei protagonisti, Baltasar e Zeljko, rinunceranno per sempre a raccontare ciò che sanno sull’atroce conflitto che ha segnato la ex-Jugoslavia nell’ultimo decennio degli anni ’90: il primo, un giornalista inviato a Belgrado per raccogliere testimonianze, distruggerà il suo quaderno di appunti, mentre il secondo, un miliziano nazionalista serbo, si farà saltare in aria la lingua prima di uccidersi.

La pièce, scritta nel 2006, non è mai stata rappresentata, ma resta viva come seme di poesia. Parola che genera pietà ed empatia verso le vittime di una tragedia infinita. E purtroppo sempre attuale.

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