Nel favoloso mondo di una vita caleidoscopica. Mai nulla di ordinario per l’uomo che fece della propria esistenza un’opera ancor più grande dei suoi romanzi.
di Generoso di Biase
Ampia eco ha ricevuto nell’ultimo anno la mise en scène La vita davanti a sé tratta dall’omonimo romanzo dello scrittore francese, lituano di nascita, Romain Kacew, meglio conosciuto con lo pseudonimo - uno dei tanti utilizzati lungo la sua caleidoscopica vita - di Romain Gary.
La pièce teatrale (con Silvio Orlando) segue di poco il film girato nel 2020 da Eduardo Ponti e interpretato dalla madre Sofia Loren. Si è trattato di un remake di una pellicola del 1977, vincitrice del premio Oscar 1978, nella categoria miglior film in lingua straniera (all’epoca, miglior film internazionale), con la regia di Moshé Mizrahi e la magistrale interpretazione della protagonista, che valse a Simone Signoret il premio Cesar nello stesso anno, come miglior attrice.
Al di là dei meriti artistici dell’opera letteraria, così come dei suoi adattamenti sia cinematografici che teatrali, balza agli occhi la sua efficacia emotiva, comunque la si viva. È significativo che per la stessa opera si adottino strumenti recitativi di rappresentazione della realtà differenti tra loro, tenendo conto dell’ironia di Silvio Orlando e la drammaticità di Sofia Loren. Basterebbe questo per ricavarne lo spunto di curiosità che spinga ad un approfondimento di indagine sulle doti letterarie e artistiche di Romain Gary ma, soprattutto, sulla personalità che definire variegata è delicato eufemismo.
Un uomo nato per eccellere, un uomo nato per vivere (rectius: bruciare) tante vite. Figlio di un’attrice di dubbio talento, Mina Owczynska, nasce nel 1914 a Vilnius, manco a dirlo, città prima russa, poi polacca, infine lituana (i cambiamenti sono una costante nella vita di Romain). Il padre, Arieh Leib Kacew, li abbandona poco dopo la sua nascita. È opportuno riportare questo particolare, non tanto come dato biografico, quanto per tentare di penetrare nella psiche dell’uomo Roman Kacew, per capire il perché di una vita o, meglio, di vite mai vissute alla propria ombra.
In effetti, l’incombente presenza di una madre che riversa fin da piccolo su di lui le proprie ambizioni inappagate, lo spingono a crearsi una via di fuga. La trova nell’idealizzazione della figura paterna, arrivando a ritenerlo un grande attore del cinema muto che, con la madre, aveva intrattenuto una breve relazione. Inaccettabile, evidentemente, l’idea dell’abbandono da parte del padre. D’altronde, chi è destinato a grandi cose non ha tempo per odiare, meglio fantasticare. Fantasticare aiuta ad alimentare la propria voglia di fare, soprattutto di essere, edulcorando la fatica che occorre per raggiungere traguardi. Traguardi quanto mai ambiziosi, per giunta, prestabiliti dalla madre, che lo immaginava grande diplomatico oppure un nuovo Victor Hugo. Per esserlo, occorre che si impari il francese. Ed è la madre a insegnargli quella che sarà la lingua con cui si imporrà al mondo ed è la madre a scolarizzarlo. Mai nulla di ordinario per Romain.
Tutto ciò che lo riguarda, ogni piccolo particolare che lo caratterizza è prodromo ad una e a mille esistenze che brucia sull’altare dell’affermazione della propria persona. Non a caso la parola Gary, lo pseudonimo usato sin dall’arrivo a Nizza, in russo è l’imperativo del verbo bruciare. Brucia, Romain! Il comando a cui risponderà fino al suo ultimo respiro è sì di essere qualcuno o qualcosa, ma qualcosa o qualcuno di grande.
Appena adulto, si arruola nelle truppe al comando del Generale De Gaulle. Da soldato, il destino gli dà subito la conferma di essere un predestinato. Viene insignito di varie onorificenze, tra cui la più prestigiosa: la Legion d’honneur.
Finita la guerra, consumata la brace della prima vita, eccolo Console generale di Francia. Intanto, inizia a scrivere racconti col suo vero nome che passano inosservati.
Inizia a utilizzare lo pseudonimo di Romain Gary e, come stabilito dal fato, si impone all’attenzione della critica con il romanzo Educazione Europea del 1946; ma il successo, quello vero, quello che lo porterà nel Gotha dei letterati francesi, lo raggiunge con la pubblicazione di Le radici del cielo sullo sterminio degli elefanti in Africa. Un’altra onorificenza in un’altra vita. Non più eroe di guerra, non più diplomatico della patria, ma romanziere. Riceve il premio Goncourt. È fatta, i desideri della madre tutti realizzati. Il piccolo ebreo Roman Kacew acclamato dagli Accademici di Francia. Giunto il momento di godere dei traguardi raggiunti? Niente affatto. L’inquietudine che caratterizza l’uomo Roman Kacew è sotto gli occhi di tutti. L’inquietudine, il minimo comune denominatore della Genialità. Sia se accompagnata dall’irrequietezza per sfuggire ad una scontentezza insaziabile, sia che conduca ad affermare: “Che mi può dare la Cina che non mi abbia già dato la mia anima”, come per Fernando Pessoa, è l’elemento che caratterizza i geni. Viene da chiedersi se l’inquietudine faccia il genio o il genio faccia l’inquietudine. Domanda che giriamo agli psicoanalisti. Resta che il nostro Romain ha fatto della sua vita un’opera ancor più grande dei suoi romanzi. I colpi di scena si alterneranno fino alla sua fine.
Ha scritto molti libri, ha conquistato la fama, ha avuto amori (si sposa due volte, prima con una bellissima donna più grande di dieci anni, poi con una bellissima donna più giovane di venticinque), conquista il cinema: molti registi, tra cui John Houston, mettono in scena le sue opere. Eppure, non basta.
All’età di sessant’anni, forse per non privarsi del piacere di provare la stessa adrenalina di quando, giovane autore, veniva finalmente scoperto dalla critica e dai lettori, si palesa con un nuovo pseudonimo, Emile Ajar. Lo spirito è lo stesso di sempre: Ajar in russo significa “brace”.
Dopo un primo romanzo che suscita forte interesse, esce La vita davanti a sé. Tante le peripezie per rendere credibile l’esistenza di Ajar, con la complicità di un nipote, prezzolato lautamente per mantenere il segreto. Tentativo ben riuscito, tanto da far aggiudicare all’autore il premio Goncourt per la seconda volta. Il premio non può essere assegnato più di una volta allo stesso autore. La paura di essere scoperto e di commettere un illecito lo spinge a rinunciare al premio. Questo scatena ancor di più la curiosità intorno al personaggio. Romain si difende inventando di tutto pur di sfuggire all’identificazione che si scoprirà dopo la sua morte.
Il 2 dicembre del 1980 si trova a Parigi. Cena prima con un amico, poi incontra il figlio. Rientrato a casa, afferra la pistola e tira giù il sipario delle sue mille vite. Le mille vite del genio Romain Gary.
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