Dai libri-inchiesta ai romanzi, dalla poesia al teatro. Il ritorno dell’intellettuale napoletana a 15 anni dalla scomparsa. A maggio al San Ferdinando con Lino Musella e la regia di Martone
di Maddalena Porcelli
Non può che suscitare entusiasmo, a quindici anni dalla scomparsa, il ritorno di Fabrizia Ramondino (Napoli,1936 – Gaeta, 2008) – scrittrice la cui personalità è stata, per molteplici aspetti, tra le più brillanti del secondo Novecento – al centro dell’attenzione del mondo letterario e teatrale partenopeo.
Difatti, è recente l’inaugurazione di un progetto dello Stabile di Napoli, fortemente voluto dal direttore Roberto Andò, di recupero della produzione teatrale di quest’autrice, per lo più inedita, che sarà pubblicata nella collana Le foglie di Gray da egli stesso diretta per la casa editrice Marotta&Cafiero.
Il primo di questi, Villino bifamiliare, ha debuttato al San Ferdinando l’anno scorso con la regia di Arturo Cirillo.
Tuttavia, va ricordato che Mario Martone – che condivise con la Ramondino un’intensa relazione artistica, avendo con lei scritto la sceneggiatura del film Morte di un matematico napoletano del 1992 – portò in scena, nel ’94, il testo teatrale dell’autrice Terremoto con madre e figlia, pubblicato dall’editore Il Melangolo,con gli attori Anna Bonaiuto e Arturo Cirillo, mentre il prossimo maggio (dal 4 al 14) firmerà la regia di un altro suo testo inedito,in scena con Lino Musella al San Ferdinando, Stanza con compositore, donne, strumenti musicali, ragazzo.
Ritornando all’autrice, è doveroso soffermarsi, seppur con brevi accenni, sulla spinta motivazionale del suo percorso artistico, dalla quale scaturisce anche la sua ricca e polimorfa attività letteraria, improntata ad un’ampia duttilità nell’utilizzo di stili e di registri linguistici diversi. Ovunque, nei suoi scritti, si può osservare la perfetta coincidenza tra ricerca esistenziale e sociale:una vita che si fa scrittura ma anche strumento per dar voce e dignità agli ultimi della terra.
È quindi il caso di citare i suoi libri- inchiesta. Il primo, del ’77, Napoli. I disoccupati organizzati raccontano, nel quale si descrivono le lotte per i diritti, le tutele, il superamento delle barriere di genere delle lavoratrici e dei lavoratori e la loro confluenza nella macro-storia di quelle nazionali. Nel farlo, per evitare che quelle voci rimanessero confinate in un asfittico localismo,l’autrice intraprese un’operazione linguistica molto interessante: italianizzò il dialetto, senza mai tradirne l’idioma, affinché quelle voci fossero riconoscibili e comprensibili nell’intera penisola.
Il secondo, L’isola dei bambini, del 1998, nel quale descrisse la sua esperienza pedagogica di volontariato vissuta nell’associazione ARN (Associazione Risveglio Napoli) da lei fondata, con sede nel centro storico di Napoli, a via San Biagio dei Librai, e vissuta con intensità crescente per otto lunghi anni,nella quale si occupò del recupero scolastico dei bambini lavoratori e di altre iniziative per combattere il lavoro minorile. Anche qui, nell’ultima parte del libro, lasciò che fossero i protagonisti a prendere la parola e sempre nel rispetto del loro idioma.
Infine Passaggio a Trieste, del 2000, una sorta di diario di bordo, così lo definì lei stessa, nel quale l’autrice raccolse le voci sofferenti delle donne che frequentavano un centro di salute mentale della città, stigmatizzate come “folli”, per restituire ad ognuna di esse la propria singolarità e scardinare i pregiudizi culturali della società. Per realizzarlo coinvolse se stessa in maniera totale, trascorrendo lunghi periodi insieme a quelle donne. “Ho raccontato le donne di via Gambini -disse-, esponendomi a emozioni e sollecitazioni intellettuali che spesso hanno minato i miei fragili equilibri. Né avrei saputo fare altrimenti”.
Dai libri-inchiesta ai romanzi, dalla poesia al teatro,in questa continua contaminazione di generi possiamo riconoscere l’intellettuale non canonizzabile, il che in parte spiega anche la nebbia calata sulla sua proficua produzione artistica. Un’esistenza segnata dal continuo spostamento spazio temporale – l’infanzia a Maiorca, il ritorno a Napoli, il trasferimento in Francia, poi in Germania, infine il ritorno a Napoli – che le avrebbe imposto, come cifra stilistica necessaria, la ricerca dell’identità, il recupero delle proprie radici, in un percorso di sperimentazione ininterrotto, sia dentro che fuori di sé.
Ed è proprio quel suo sguardo che, a partire dall’analisi di un dato autobiografico, finisce inevitabilmente con l’estendersi alla dimensione più ampia del sociale, riuscendo a catturare le trasformazioni, tra rotture e ricostruzioni di storie, luoghi e passaggi di un’intera epoca storica. Non vi è dubbio che ciò le sia stato possibile proprio perché, al fondo della sua ricerca identitaria, c’è sempre stata la consapevolezza di quanto fosse vana un’identità incapace di relazione con gli altri. Lo stesso Martone, infatti, sottolineò, nelle note di regia di Terremoto con madre e figlia, che l’autrice aveva voluto rappresentare, sullo sfondo di una tragedia collettiva – il terremoto del 1980 – la relazione tra una madre e una figlia, il conflitto generazionale che percorre l’esistenza collettiva e individuale. Il terremoto rappresentava la tragedia oggettivamente data dalla storia ma anche, sul piano soggettivo, il conflitto generazionale tra se stessa e sua figlia, riflesso a sua volta di una stagione che si chiudeva- l’utopia del ’68-e di quella che ne seguiva, che avrebbe trascinato tra le macerie un intero universo di sogni e di speranze. E accade la medesima cosa anche in Villino bifamiliare, dove si confrontano, attraverso le storie individuali dei personaggi, due universi ideologici di natura opposta sullo sfondo della caduta del muro di Berlino.
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