Dostoevskij-Orsini in un copione teatrale dove le macerie di un tribunale coincidono con quelle di una coscienza erosa dal rimorso. Con lo sceneggiato Rai del 1969 diretto da Sandro Bolchi, l’incontro tra l’attore piemontese e lo scrittore russo. Ora il libro, frutto di quell’esperienza, per Cue Press Edizioni
Di Antonio Tedesco
Può un attore trovare se stesso, la propria storia artistica, e forse umana, in un personaggio che lo ha particolarmente segnato? E nel quale gli pare di specchiarsi, provando al tempo stesso attrazione e repulsione? Un personaggio che si trasforma in un universo da esplorare e del quale non si riesce mai a vedere la fine. La prima volta che Umberto Orsini incontra Ivan Karamazov è nel 1969. Interpreta il secondo dei tre fratelli (più uno illegittimo) nello sceneggiato realizzato dalla RAI con la regia di Sandro Bolchi e la riduzione di Diego Fabbri, tratto dal grande romanzo di Fёdor Dostoevskij.
Un incontro folgorante per l’attore. Un personaggio che racchiude un mondo e sul quale ha sentito più volte il bisogno di tornare nel corso della sua lunga carriera artistica. Fino a regalargli una sua completa autonomia. La dignità di una (in)compiutezza che neanche lo stesso Dostoevskij gli aveva concesso. Così, dopo varie rielaborazioni avvenute nel tempo, Orsini ha fatto di Ivan una sorta di sintesi e di corollario della propria stessa vicenda umana e teatrale. E insieme a Luca Micheletti ha elaborato questo testo intitolato Le memorie di Ivan Karamazov, un copione teatrale con forti risonanze letterarie, andato in scena lo scorso autunno al Piccolo di Milano, e che ora l’editore Cue Press, pubblica (pagg. 63, € 16,99) con una nota dello stesso Orsini e un saggio sull’incontro tra queste due figure (attore e personaggio) di Luca Micheletti, che oltre ad essere coautore del testo è regista della messa in scena. In più un ricco corredo fotografico che comprende foto di scena, bozzetti di scenografia, foto d’epoca che rimandano all’ambiente umano e sociale in cui la vicenda di I fratelli Karamazov e Dostoevskij stesso, sono maturati.
Nel testo-spettacolo Ivan-Orsini rivive la sua storia in una dimensione metafisica, dove le macerie di un antico tribunale coincidono con quelle della memoria di una coscienza erosa dal dubbio e dal rimorso. Conscio di una colpevolezza morale che nessun giudice potrà mai riconoscergli, ma per la quale egli anela la giusta condanna.
La sua necessità di espiare resta insoddisfatta e si trasforma in profonda frustrazione.
Come se il suo ruolo gli fosse negato, la sua personalità rimanesse incompiuta. Sospesa, indefinita, privata della sua legittima e sacrosanta condanna.
Sulla scena Orsini-Ivan dialoga con il se stesso dello sceneggiato del 1969. Oltre lo spazio e il tempo, per rendere ancor più lancinante questa mancanza. E arriva ad un terzo livello di identificazione, quello con Il grande inquisitore, protagonista dell’incompiuto poema che nel romanzo Ivan racconta una sera a suo fratello Aljoscia e nel quale i temi della fede e della libertà individuale si rivestono di nuove, per certi versi inedite, risonanze.
Le memorie di Ivan si identificano, in definitiva, con quelle di Orsini. E rimandano, forse, a quelle di Dostoevskij stesso, che lo scrittore aveva opportunamente celato nel testo.
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