Elena Sofia Ricci e Gabriele Alagni, diretti da Pier Luigi Pizzi, approdano al Comunale di Caserta sulle ali del desiderio di eterna giovinezza. Omaggio al drammaturgo statunitense
Di Generoso di Biase
Quest’anno cade il quarantesimo anniversario dalla scomparsa del drammaturgo statunitense Thomas Lanier Williams (26 marzo 1911 – 25 febbraio 1983), meglio conosciuto con lo pseudonimo di Tennesse Williams. Il nostro Paese celebra l’evento con la messa in scena di una delle sue tante e pregevoli opere letterarie La dolce ala della giovinezza, con Elena Sofia Ricci e Gabriele Alagni diretti da Pier Luigi Pizzi. Dal 28 al 30 aprile al Teatro Comunale Parravano di Caserta.
Difficile inserire questa commedia tra i capolavori assoluti dell’autore, ma va detto, senza tema di smentita, che le sue opere letterarie e, in particolare, teatrali si distinguono, appunto, tra capolavori assoluti e opere che sarebbero capolavori nel palmarès di qualsiasi altro drammaturgo. I titoli sono tanti, spiccano per notorietà La notte dell’iguana, La gatta sul tetto che scotta, Il serraglio di vetro – opera questa con maggiori cenni esplicitamente autobiografici –, La rosa tatuata, il cui adattamento cinematografico, nel 1956, regalò la statuetta dell’Oscar alla nostra Nannarella, Anna Magnani, e, dulcis in fundo, naturalmente, il dramma più celebrato Un tram chiamato desiderio, diventato poi, grazie al regista Elia Kazan e alle icone Marlon Brando e Vivien Leigh, un classico del cinema mondiale. È appena il caso di accennare, per rendere più comprensibile il valore dell’opera ai nostri lettori (valse nel 1948 al suo autore il premio Pulitzer), che Un tram chiamato desiderio, in Italia, fu portato in scena da un regista del calibro di Luchino Visconti, con la scenografia di Franco Zeffirelli e la partecipazione di Rina Morelli, Vittorio Gassman e Marcello Mastroianni.
L’intera opera di Williams è caratterizzata dall’intento di mettere a nudo l’essere umano, senza distogliere lo sguardo dalla disperazione di un’anima che egli indaga passando per i suoi aspetti più oscuri. Anche attraverso l’indagine sulla sessualità come causa ed effetto, condizionanti e condizionati dalla stessa personalità. Questo minimo comune denominatore dell’opera di Williams è un’evidente prova dell’angosciante interiorità dell’autore. Non poteva che essere così.
Nasce nel 1911 a Columbus, Mississippi – USA, da Cornelius Coffin e Edwina Dakin Williams. Deriso dal padre per non rispecchiare il modello di maschio americano dei primi del Novecento, si legò fortemente ai nonni materni che ospitavano i Coffin e, in particolare, al nonno, il reverendo Walter Edwin Dakin, che portò a vivere con sé allorquando ebbe ad acquistare una casa in Florida, a Key West. Aveva un fratello, Dakin, e una sorella, Rose, affetta da ansia e schizofrenia.
Si laureò, dopo aver frequentato senza successo vari college, nel 1938. Lo stesso anno in cui la sorella venne rinchiusa in un ospedale psichiatrico. Poco più tardi, la madre acconsentì ad un’operazione al cervello di lobotomia. L’operazione non riuscì e Rose fu ridotta a una sorta di vegetale. Thomas non perdonò mai alla madre di aver dato il consenso all’operazione; altresì, la sua sensibilità non gli concesse mai di perdonarsi un rimorso verso la sorella che lo accompagnò per l’intera vita, a braccetto, costretto a frequenti attacchi di panico, con la paura di fare la stessa fine. Negli anni Trenta, incominciarono i suoi viaggi per gli Stati Uniti, durante i quali intrattenne relazioni con altri uomini. Va chiarito che non ebbe mai difficoltà ad accettare la propria omosessualità, probabilmente perché accettata dall’amatissimo nonno.
Le contraddizioni dell’America: contrastato dal padre, accettato dal nonno reverendo. Nel 1943 stipulò un contratto di sei mesi con la Metro Goldwyn Mayer per la stesura di una sceneggiatura. Non durò oltre quell’esperienza. Il cinema non era il suo mondo, anche se poi quello stesso mondo lo ha ampiamente omaggiato con la trasposizione cinematografica di tante sue opere teatrali da parte di grandissimi registi come Kazan, Mankiewicz, Brooks, Rapper, Newman. Ebbe una relazione con il suo segretario Frank Merlo, iniziata nel 1947 e durata fino alla morte dell’amante per un carcinoma del polmone nel 1963. Questo rapporto gli regalò un periodo di relativa serenità, in cui i suoi stati depressivi venivano compensati dalla presenza al suo fianco di Merlo. La morte di questi, invece, fece di lui un alcolista. Fu trovato morto nella stanza dell’Hotel Elysée di New York, soffocato dal tappo del flaconcino di collirio che era solito spruzzarsi negli occhi. Operazione che dovette eseguire, in quell’ultima occasione, da ubriaco.
Quest’anno, ribadiamo, cade il 40° anniversario della morte. L’Italia ricorderà Tennessee Williams con la fatica del regista teatrale Pier Luigi Pizzi che porta in scena La dolce ala della giovinezza.
La giovinezza è uno dei temi cari al drammaturgo, una giovinezza come stagione della vita che si consuma in fretta, troppo in fretta. Una giovinezza usata dal drammaturgo come altro strumento per scandagliare i percorsi dell’anima e le scelte di vita. L’interesse di Tennessee Williams per gli aspetti psicologici più reconditi dei suoi personaggi, così come il rifiuto a celare le furbizie, i continui compromessi, gli egoismi piccoli e grandi, si può definire maniacale. Combatte la propria paura di divenire pazzo, con lo svelare le manie degli altri, quasi a rendere l’intero mondo abitato da un’umanità piena di manie riprovevoli. Tutti pazzi, nessuno escluso, nemmeno se stesso.
Così accade nell’opera scelta da Pizzi. Un giovane e attraente uomo, Chance, lascia il proprio paese natio e l’amore, per tentare la carriera di attore. Visti però gli insuccessi, ripiega sull’attività di gigolò. In questa veste si accompagnerà ad Alexandra – un’attrice sul viale del tramonto, che scappa da Hollywood, certa dell’insuccesso dell’ultimo film girato – nella speranza di godere della notorietà della donna, affinché possa prendere una giusta piega la sua carriera di attore. Decidono di fare tappa nel luogo natale di Chance, che cova il desiderio di incontrare l’amore abbandonato.
Sa però di rischiare che il collerico padre della ragazza abbandonata gliela faccia pagare terribilmente cara. Una ragazza che, colpita da una malattia venerea, trasmessale nel loro ultimo incontro, è diventata l'ombra di se stessa. Il gigolò, giunto in città, tenta di spacciarsi per un attore ricco e di successo, ma sarà ben presto scoperto. I concittadini vengono a sapere che spende i soldi dell’amante e della poco edificante attività che esercita.
Nel frattempo, altro evento imprevedibile, Alexandra è raggiunta dall’eco del successo del suo film, per cui dispone di rientrare a Hollywood. Rifiuta di ufficializzare il rapporto con Chance (ultimo tentativo del giovane per avere successo nel mondo del cinema), per evitare prevedibili critiche che nuocerebbero alla sua rinata carriera, offrendogli il ruolo di amante. Ruolo che il giovane rifiuta, decidendo di rimanere in città, pur sapendo di subire la vendetta del padre della ragazza.
A questo punto la versione filmica, interpretata da Paul Newman e Geraldine Page per la regia di Richard Brooks, diverge ampiamente dalla trama dell’opera originale. Il finale del film in ossequio alla tradizione hollywoodiana, visti anche i problemi di censura, fortemente edulcorato.
Il gigolò, dopo aver subito le conseguenze di un’aggressione da parte del fratello della fidanzata e della sua cricca, riesce a fare emancipare la ragazza dal dispotico padre e a farle decidere di andare a vivere con lui. Il perdono, come invece è tradizione del pensiero del drammaturgo, non esiste nell’opera originale. È una regola che applica a se stesso, come potrebbe non trasferirla nelle vite dei suoi personaggi? In effetti, il finale della pièce teatrale risulta essere, sebbene più crudo, meglio aderente alla realtà.
La ragazza, infettata da Chance, subisce un’isterectomia. E Chance paga con l’evirazione la sua colpa.
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